Un giorno – quando meno me l’aspettavo – il mio delizioso bimbetto (tre anni appena compiuti) così carino e paffutello, buono e gentile ha pronunciato una sonora parolaccia, scandalizzando tutti. Perché?
La psicologia ha ben dimostrato che il periodo che va dai tre ai sei anni è quello in cui si “socializza” la parola, si comprende cioè che le nostre parole possono essere usate da altri e che noi possiamo usare le parole sentite: tra queste ci sono (perché no?) anche le parolacce. Il bambino ha imparato da qualcuno questi nuovi interessanti modi di dire e – semplicemente – li usa. Dunque la prima motivazione è di natura evolutiva e dimostra una normale acquisizione di abilità e competenze (verbali in questo caso). È un dato di fatto, per niente connotato da valutazioni morali negative.
Inoltre le “parolacce” sono espressioni usate dai “grandi” e lui, che vuole crescere, deve parlare come loro.
Infine… quelle espressioni “suscitano reazioni”, vengono pronunciate nei momenti straordinari, quando papà è arrabbiato, quando mamma mi sgrida, sono efficaci per attirare l’attenzione e questo è “molto interessante”.
Ma dove le impara? Dobbiamo castigarlo?
Nel momento in cui lo sentiamo dire la prima volgarità, la domanda nasce spontanea.
I papà e le mamme – tutti – con sicurezza dichiarano: Da Noi no, noi non usiamo quelle parole lì; ma spesso i bambini imparano proprio dagli adulti più vicini e principalmente dai genitori. E se non a casa, le sentono in strada, a scuola, nel parco, in oratorio, alla televisione, ecc. Ma che importanza ha il dove o da chi? Non c’è dubbio che una volta acquisite le ripeteranno. E se noi glielo impediremo daremo loro uno strumento per metterci in imbarazzo e… appena possibile – quando “sentono” che possono – eccole! E allora noi li castigheremo e loro le terranno dentro fino a quando preadolescenti, nel gruppo degli amici, potranno finalmente fare e dire quello che vogliono.
Quindi mentre durante l’infanzia le parolacce sono del tutto normali e, tutto sommato, facili da gestire, poi sarà più difficile e costituiranno una reazione alla generazione precedente che ha inibito l’uso di queste espressioni.
Che fare?
Sgridare il bambino (o castigarlo o picchiarlo) produce l’effetto contrario, fissa il comportamento e porta a ripeterlo… e allora sul “che fare” possiamo proporre una scaletta graduale di comportamenti positivi. Il primo è proprio quello detto e ridetto: bisogna parlarne “preventivamente” tra educatori, tra papà e mamma, tra genitori ed educatrici della scuola, tra tutti questi e il pedagogista, affinché quando capita si sappia come agire. Conosco l’obiezione: Ma davvero dobbiamo “parlare prima” di tutto anche delle parolacce? La mia risposta è unicamente: Sì! Perché ciò serve a evitare reazioni sicuramente dannose e ad adottare quelle educativamente valide.
Qualche esempio di risposte dannose
Un esempio, interviene il papà che dice: Sei un deficiente, o la mamma che dà una sberla al bambino, così impara, o la nonna che dice: Ma non lo sai che se dici quelle parole Gesù ti castiga.
Continuiamo con i comportamenti positivi?
La seconda cosa da fare è controllarsi, eliminando le volgarità; evitando così cattivi esempi da parte di chi (papà e mamma) sono “modelli” determinanti.
La terza?
Dopo i tre anni si può (e si deve), far presente con serenità al bimbo che noi non usiamo quelle parole, perché siamo una bella famiglia (va detto e ripetuto spesso: siamo una “bella” famiglia) e abbiamo scelto di usare un linguaggio altrettanto bello.
E circa il riferimento all’offendere Gesù fatto dalla nonna…
La fede, lo abbiamo scritto più volte, la trasmettono i genitori con i loro esempi di vita concreta e i bambini crescono buoni perché buona è l’educazione che ricevono in casa. Purtroppo però tanti mandano i bambini in parrocchia, all’asilo delle suore, all’oratorio, ai campi scuola, al catechismo: Così imparano qualcosa di buono, intanto in famiglia valgono “altre” regole, si impreca, si bestemmia, si usa un linguaggio da caserma. La religione non serve a “tener” buoni i bambini (minacciando castighi di Dio, inferni e quant’altro); si tratta semmai di dare una buona educazione morale (che non coincide con l’educazione religiosa tant’è che può esserci una buona educazione morale anche in una famiglia atea) che ha come meta la capacità di distinguere il bene dal male, la capacità di scegliere il bene, il meglio, il bello.